L’intervista dell’avvocato Antonio Ingroia ad Antimafiaduemila, sulle sentenza di primo grado che per la morte di Attlio Manca ha condannato a cinque anni e quattro mesi, più 18mila euro di multa, la 50enne romana Monica Mileti, la spacciatrice accusata di aver ceduto al medico siciliano la dose di eroina che lo avrebbe ucciso nel 2004:
di Lorenzo Baldo
“È una sentenza abnorme in una vicenda assurda e paradossale, con una verità processuale che mi auguro possa essere modificata nei successivi gradi di giudizio”. L’ex pm Antonio Ingroia (che assieme a Fabio Repici difende la famiglia Manca) non ha dubbi: il problema non è solo la sentenza odierna di Viterbo, bensì “un intero processo, un’intera vicenda giudiziaria dove si è deciso di guardare verso un’unica direzione”. Ingroia ribadisce quindi la gravità di un verdetto nel quale si ritiene di aver individuato la causa della morte violenta di una vittima dopo un processo “dove però non si è consentito ai familiari della stessa vittima di partecipare con i loro legali a dare un contributo per scoprire la verità”. Il legale dei Manca torna a puntare il dito sulla deposizione flash della madre di Attilio Manca “l’unica fonte di prova fuori dal coro” sentita solo per pochi minuti “su circostanze del tutto secondarie”. L’avvocato Ingroia sottolinea inoltre il paradosso di un processo fondato “per lo più sulla base di ‘fonti’ interessate che si accertasse nella verità processuale qualcosa di lontano dalla verità investigativa. Che soltanto le indagini difensive hanno sino ad oggi consentito di mettere in rilievo”. “E’ come se, con i dovuti distinguo, si fosse fatto un processo su fatti di mafia nello stesso modo in cui 50 anni fa si facevano in Sicilia – evidenzia l’ex pm – dove i testimoni principali spesso erano gli stessi mafiosi o i loro complici. Che erano interessati ad attribuire ai fatti di mafia matrici ben distanti: delitti passionali. Poi venivano emesse sentenze per insufficienza di prove prendendo per buone le testimonianze dei mafiosi e dei loro complici”. “Per certi versi la realtà giudiziaria di Viterbo – ribadisce Ingroia – assomiglia tanto a quella di Palermo, di Trapani e della Sicilia intera dei ‘bei tempi andati’ quando bisognava cancellare l’esistenza della mafia, della massoneria deviata e dei poteri occulti”. Il legale dei Manca si addentra quindi in quella che definisce “l’abnormità nell’abnormità nel processo”. “Non solo si sono ignorate totalmente le indagini difensive, ma persino un’indagine di una procura distrettuale antimafia che sta ricostruendo una verità giudiziaria incompatibile con quella consacrata in questa sentenza”. “In quanto uomini di giustizia – sottolinea Ingroia – abbiamo il dovere di avere fiducia nella giustizia; questo significa avere fiducia che alla Procura di Roma si segua la via maestra: la via delle prove e delle verifiche a 360° a prescindere della sentenza di Viterbo”. Tra i punti focalizzati non poteva mancare – per l’ex pm che ha istruito il processo sulla trattativa Stato-mafia – il nesso tra la morte di Attilio Manca e il patto criminale tra Cosa Nostra e pezzi delle istituzioni. “A prescindere dal contesto e dal collegamento con le indagini sulla trattativa Stato-mafia, che noi riteniamo essere la matrice dell’omicidio Manca – rimarca l’ex pm – la Procura di Roma ha una serie di elementi concreti e oggettivi sulla base dei quali è possibile arrivare ad una verità diversa da quella della magistratura di Viterbo. Questo sarebbe già un passo importante: riconoscere che è stato un omicidio premeditato. Le tracce per arrivarci sono enormi. Per non parlare delle dichiarazioni attendibili dei collaboratori di giustizia. In questo modo è possibile individuare i responsabili mettendo nomi e cognomi nel registro degli indagati della Procura di Roma che fino ad oggi procede ancora contro ignoti. Poi si tratterà di scavare e verificare le ipotesi che la difesa e i familiari hanno sostenuto sulla base di altrettanti elementi concreti ed oggettivi. Che legano quei nomi e quelle tracce materiali dell’omicidio premeditato alle vicende connesse alla trattativa Stato-mafia”. Un’ultima riflessione riguarda infine il suo ex collega Nino Di Matteo. “Mi auguro che al più presto, senza ulteriori indugi – sottolinea Ingroia – si dia corso al suo trasferimento alla Procura nazionale antimafia. Credo che in questo momento il suo bagaglio di esperienza e di conoscenza potrebbe consentire di dare un ulteriore impulso all’attività di indagine e di coordinamento che la Procura nazionale antimafia può svolgere. Proprio alcuni mesi fa, come difensori della famiglia Manca, abbiamo depositato nelle mani del Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti una specifica ed apposita istanza affinché la Dna svolga questo ruolo. Penso che un rapido e sollecito trasferimento di Nino Di Matteo alla Dna, unitamente alla sua applicazione a Palermo per proseguire le indagini sulla trattativa Stato-mafia, sarebbe il miglior modo per impiegare una risorsa così importante della magistratura come lui; per dare finalmente una tangibile e concreta speranza alle aspettative di giustizia dei familiari di Attilio Manca che oggi sono state frustrate”.
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